Wednesday, January 09, 2008

Luisa... sei GRANDE!

Articolo di Luisa Morgantini, Vice Presidente del Parlamento Europeo, pubblicato il 7 gennaio 2008 sul sito www.luisamorgantini.net. Ho avuto la fortuna di conoscere Luisa... magari ci fossero piu' persone come lei al mondo... buona lettura!

Una striscia di futuro : riconoscere l’altro/a storie di relazioni tra israeliani e palestinesi.

Tratto da "Fare pace: odio. Annuario geopolitico della pace 2007"

Abbiamo una malattia inguaribile: la speranza.

La speranza della liberazione e dell’indipendenza.

La speranza di una vita normale in cui non siamo né eroi né vittime.

La speranza che i nostri figli possano andare a scuola in sicurezza.

La speranza che la donna incinta partorisca un bambino vivo all’ospedale

Invece di un bambino morto davanti ad un check point militare"

Mahmoud Darwish, poeta palestinese.

E’ così difficile mantenere la speranza quando vedi che tutto si distrugge. Il sogno per il quale migliaia e migliaia di palestinesi hanno pagato con dolore, con espropri di casa, di terra, della patria, si va facendo sempre più impossibile, spazzato via dalle responsabilità della Comunità Internazionale che non ha saputo rendere giustizia e legalità ai palestinesi, permettendo invece l’occupazione militare israeliana che dura da quarant’anni, mentre da ormai 60 anni, milioni di persone ricordano la Nakba, la catastrofe per cui circa un milione di palestinesi sono stati costretti a fuggire dalle loro case dai loro villaggi e sono diventati profughi, sparsi nei vari paesi del mondo. Ma le loro speranze sono state spazzate via anche dalle lotte interne palestinesi, lotte fratricide e folli. E non basta dire che è così facile uccidere quando si è disperati, quando si ha fame, ma soprattutto quando, come a Gaza, dal 1993 si vive in una prigione a cielo aperto, dove ogni tanto il carceriere permette di fare entrare qualche aiuto umanitario. Dal 1967 oltre 750mila palestinesi sono stati arrestati dall'esercito israeliano nella West Bank e a Gaza, e questo su una popolazione di tre milioni e mezzo di abitanti. Ad oggi sono circa 11000 i palestinesi detenuti nelle carceri israeliane, tra cui 40 tra ministri e parlamentari, 1000 malati, centinaia di donne, di bambini. In soli sei giorni, nel periodo compreso fra il 24 e il 30 maggio, una trentina di palestinesi sono rimasti uccisi nelle operazioni militari israeliane condotte a Gaza e in Cisgiordania, una decina erano bambini. Oggi la conta dei morti prosegue inesorabile.

Nei Territori, inoltre, secondo un recente rapporto dell'Organizzazione internazionale del lavoro (Ilo), agenzia per l’occupazione delle Nazioni Unite, circa 260 mila persone, pari al 24 per cento della popolazione attiva, sono senza lavoro e sette famiglie su dieci, pari a 2,4 milioni di persone, vivono al di sotto della soglia di povertà. Ad oggi, il rischio rimane purtroppo la crescita di un radicalismo estremo, che ha visto gli orrori degli scontri e degli assassini, dei vandalismi nella striscia di Gaza. Maturati in una lotta per il potere tra due forze politiche, in un contesto però di negazione di diritti, nella povertà, nell’isolamento politico e dell'embargo economico. In particolare quello che sta accadendo nella Striscia di Gaza, è un fatto gravissimo e soprattutto in quanto poteva essere previsto, dunque evitato: ne siamo stati complici anche noi, Unione Europea e Comunità Internazionale, ogni volta che guardavamo inerti le ripetute violazioni della legalità da parte di Israele e assistevamo all'erosione silenziosa della speranza e delle terre fertili palestinesi con il Muro dell'apartheid, definito illegale dalla Corte Internazionale di Giustizia ma la cui costruzione continua indisturbata.

Israele continua infatti ad usare il dizionario della guerra e della violenza, forte del silenzio della Comunità Internazionale, che si ostina ad applicare una logica di “due pesi e due misure”, ponendo condizioni ai palestinesi e ignorando le responsabilità che ricadono sugli israeliani e che smorzano ogni prospettiva di pace. Non si deve dimenticare, infatti, che è il Governo israeliano, e non quello palestinese, ad aver rifiutato la storica opportunità costituita dall’Iniziativa di Pace presentata dalla Lega Araba, continuando invece ad occupare e costruire insediamenti. Certo molte responsabilità ricadono anche sui gruppi estremisti palestinesi che hanno stravolto la lotta nazionale per la libertà e l’indipendenza palestinese con una deriva militare che, tramite gli attentati suicidi, si è resa responsabile dell’uccisione di civili, illegali e disumani quanto quelli compiuti dall’esercito israeliano.


Ma all’interno della comunità israeliana sono molte le voci e le organizzazioni che ripudiano la logica militare, rifiutano il coprifuoco imposti per settimane a intere città e villaggi, i bombardamenti e i rastrellamenti, la demolizione di case, le detenzioni amministrative, lo sradicamento di alberi, e gli assassini mirati che ammazzano civili e bambini considerandoli come "effetti collaterali". Si tratta di voci libere che riconoscono il diritto di ciascuno ad uno Stato libero e Indipendente. Così come da parte palestinese molte sono le realtà che rifiutano la logica del nemico e dei fondamentalismi, cercando, al contrario, di costruire ponti e non muri.


Palestinesi e Israeliani insieme riescono spesso ad unire i loro sforzi nella ricerca congiunta di una giustizia per entrambi i popoli: riconoscendo l’asimmetria tra il vivere in un paese occupante e in un paese occupato, partono dal mutuo riconoscimento dei diritti dell’Altro ad esistere in uno Stato Sovrano e in sicurezza, ribadendo uniti che non servono Muri a proteggere dalla violenza ma che è l'occupazione che distrugge tutto e tutti.

Qui sotto vi presento brevemente quattro esperienze che mantengono viva la speranza e sono lezioni di una umanità che rifiuta la figura del nemico e costruisce relazioni e azioni politiche per uscire dalla spirale della violenza e dell’ingiustizia.



PARENTS CIRCLE, Il dialogo è un atto radicale

L’occupazione distrugge tutto e tutti e non ha mai senso misurare il dolore e la sofferenza. Le donne, gli uomini, le madri, i padri, fratelli, figli sorelle, se parlassero la stessa lingua esprimerebbero il dolore allo stesso modo. Molti, in quella regione martoriata dal dolore, la pensano così. E agiscono di conseguenza, mettendo in atto l’unica, vera e radicale politica di pace possibile: il dialogo e il riconoscimento dei diritti per tutti e tutte.

Il Forum delle famiglie dei Parents Circle è un gruppo composto da più di 500 famiglie palestinesi e israeliane che hanno perso dei famigliari a causa del conflitto. Si riuniscono da oltre 12 anni e portano in giro per il mondo un messaggio rivoluzionario: in una terra in cui la distanza tra israeliani e palestinesi potrebbe sembrare tragicamente enorme, parlare, discutere con il nemico, umanizzarlo è un atto radicale. Robi Damelin e Ali Abu Awwad, sono una coppia insolita: la prima è un’israeliana di mezza età che vive a Tel Aviv; l’altro è un giovane palestinese che vive al nord di Hebron.


Entrambi hanno perso un amato a causa delle violenze in corso da decenni nella regione. Un figlio, un fratello. Come loro, molte famiglie sia palestinesi che israeliane.


Entrambi credono che la risposta al conflitto non si possa delegare ai politici, ai governi e soprattutto non si possano e non si debbano trovare soluzioni nelle politiche militari e nelle armi, e che persone “normali” possono mostrare, attraverso il dialogo e la cooperazione, la strada ai politici e ai governi.


Il fratello di Ali è stato ucciso a freddo da un soldato israeliano ad uno dei centinaia di check point che rendono la vita dei palestinesi un inferno. Quello dove il fratello di Ali ha trovato la morte era appena fuori del suo villaggio vicino a Hebron. Era giovane, quando la mamma di Ali era in carcere perché militante di Fatah, si prendeva cura della famiglia. Anche Ali, che racconta di aver gettato “una tonnellata di pietre” durante la prima Intifada, è stato in carcere, ancora adolescente ha trascorso sette anni in prigione e venne rilasciato dopo gli Accordi di Oslo nel ’93.

Dopo la morte del fratello a quel check point che lui ha ribattezzato “death point”, per Ali poteva essere facile cedere al richiamo della vendetta, ma così non è stato.


Il figlio di Robi si chiamava David e aveva 28 anni quando è stato ucciso da un militante palestinese mentre prestava servizio nell’esercito. Era un musicista e membro del movimento israeliano per la pace: non avrebbe voluto servire l’esercito occupante, ma disse a sua madre che avrebbe voluto cercare di dare un esempio con il suo modo “diverso” di trattare i palestinesi.

Dopo la sua morte, Robi ha scritto una lettera alla famiglia del cecchino dicendo: “So che lui non voleva uccidere David perché era David. Se lo avesse conosciuto, non avrebbe fatto una cosa simile”.


Ali e Robi, sono convinti e gridano al mondo che gli individui hanno il potere di arrestare la violenza anche in una regione così devastata dalla disperazione, anche correndo il rischio, reale, di essere considerati dei traditori da parte di gruppi estremisti o che credono alla politica del dente per dente.

Traditori da entrambe le parti. Ma loro persistono, perché “il dolore di una madre è universale. La perdita di un figlio devasta chiunque” come dice Robi e Alì aggiunge “bisogna elaborare il dolore, riconoscerlo nell’altro, non volere vendetta ma giustizia, essere insieme non solo per dialogare ma per contribuire a risolver l’ingiustizia e l’illegalità dell’occupazione militare israeliana, riuscire a vivere in pace tra palestinesi e israeliani”.


COMBATTANTS FOR PEACE

I“Combattenti della pace” sono un gruppo di ex soldati israeliani ed ex militanti palestinesi, molti dei quali ex prigionieri politici, che hanno dato il loro addio alle armi e propongono ora alternative concrete, dal basso e pacifiche, per la fine di un conflitto infinito.


Come una goccia in un mare di pietre ed ulivi, colline e colonie, sotto il sole che filtra nelle fessure del muro, sfrontato e illegale, ma che rimane lì a tagliare definitivamente il cortile della scuola elementare di Anata, villaggio a ridosso di Gerusalemme Est, occupata, in una giornata di festa nell’aprile scorso i Combattants for Peace hanno lanciato ufficialmente il loro messaggio.


Un messaggio chiaro, efficace, da parte di uomini e donne, ragazze e ragazzi che non hanno conosciuto altro che la guerra e la violenza.

Bassam, Sulaiman, Zohar, Elic gridavano in tutte le lingue Salam, Shalom, pace, canti e appelli, testimonianze e denunce.

Hanno scelto di non uccidere, hanno scelto la strada della non violenza dopo aver fatto i soldati nell’esercito israeliano e aver sparato e qualcuno di loro ucciso, oppure aver creduto nella lotta armata e cercato di fare azioni militari contro l’occupante ed aver pagato con anni di carcere la loro rivolta.


Bassam Aramin, 39 anni, è di Anata il villaggio dove il muro divide e uccide. E’ stato prigioniero politico nelle carceri israeliane dal 1985-1992. Era un militante palestinese, aveva tentato di aggredire un soldato, ma ora pensa che bisogna farla finita con la violenza.

Lo abbiamo ascoltato commossi a Strasburgo, in occasione di un audizione sui prigionieri politici palestinesi.

Sua figlia Abir, 11 anni, è stata assassinata, lo scorso 8 febbraio, da un proiettile israeliano che l'ha colpita alla testa, mentre usciva dalla scuola di Anata, Gerusalemme Est. L'esito dell'inchiesta di tre giorni effettuata dalle autorità israeliane, smentita dalle evidenze e dagli esami medici, afferma che la bimba è stata uccisa da una pietra. Dal 2000 ad oggi sono 815 i bambini palestinesi uccisi dall'esercito israeliano, ma per nessuna di queste morti, come per quella di Abir, è stato trovato un responsabile.

Sarebbe facile, così facile, odiare. Cercare vendetta, impugnare un fucile, e uccidere tre o quattro soldati, nel nome di mia figlia- aveva scritto Bassam in una lettera in memoria di Abir- Questo è il modo in cui palestinesi ed israeliani hanno vissuto la propria vita per lungo tempo. Ogni bambino morto, ed ognuno è figlio di qualcuno, è un’altra ragione per continuare ad uccidere. Lo so. Anch’io ero parte di questa spirale. (…) Ma mentre scontavo la mia condanna, ho parlato con molte delle mie guardie carcerarie. Ho imparato la storia del popolo ebreo. Ho imparato dell’Olocausto. E sono riuscito anche a capire: da entrambi i lati siamo stati tramutati in strumenti di guerra. Da entrambi le parti , vi è dolore, lutto, e infinite perdite. E l’unico modo per fermare tutto questo è fermare noi stessi”.

Bassam non ha mai chiesto vendetta, ma giustizia: al capezzale della sua bimba insieme a lui e alla sua famiglia, c'erano anche i suoi compagni israeliani, ex soldati e combattenti per la pace.


Zohar Shapira ha 37 anni, è sposato, ha una figlia. Fa l'insegnante di fisica e matematica in una scuola elementare. Anche suo fratello Jonathan, che faceva il pilota, si è rifiutato di bombardare i civili palestinesi.

Zohar è stato per 15 anni comandante di un'unità dell'esercito israeliano, dedicata alle operazioni speciali nei territori palestinesi. Nel 2003 ha scritto una lettera firmata da altre trenta persone e indirizzata al suo Governo, spiegando le motivazioni che lo hanno spinto ad abbandonare le armi.

Ho sempre pensato di difendere il mio Paese, agivo nella convinzione di aiutare il mio popolo. Poi ho capito che il persistere dell'occupazione era immorale e costituiva il pericolo più grande per la sopravvivenza di Israele. Un giorno sono andato dal mio comandante, gli ho detto che non avrei più umiliato nessuno, che avrei servito nell'esercito del mio Paese solo all'interno dei confini di Israele e mai più Palestina. E' stato difficile, ho rotto un tabù personale e sociale”.

Zohar è convinto che all'interno dell'esercito, come all'interno della società israeliana, le posizioni siano molto contrastanti: almeno il 40% dei soldati israeliani è contro l'occupazione anche se tutti continuano ad eseguire gli ordini. Per questo l’obiettivo principale dei Combattants for peace è quello di cambiare la percezione dell'Altro e di trasmettere il prezzo, altissimo, dell'uso della violenza. Lo scopo è quello di diffondere questo messaggio anche tra altri combattenti, giovani, accademici, politici, di arrivare alla comunità internazionale, agli Israeliani e ai Palestinesi. Mai come ora è necessario cambiare la mentalità dei combattenti in una mentalità da combattenti per la pace.



BIL’IN, il cantiere delle non violenza contro l’ingiustizia e il muro

Bil'in è un piccolo villaggio a nord-est di Ramallah, che dista circa sei chilometri dalla linea verde, poco lontano dalla grande colonia israeliana in continua espansione di Modi'in Illit, secondo gli accordi di Oslo è classificato come zona A, quindi avrebbe dovuto essere sotto completo controllo palestinese.

Bil’in è diventato negli ultimi due anni il simbolo della lotta non violenta dei movimenti popolari di resistenza locale e internazionale contro l'occupazione e il muro.

Qui il "cantiere della vergogna" del Muro israeliano ha eroso circa il 60% delle terre coltivabili ai circa 1600 abitanti del villaggio, prevalentemente agricoltori. Un vero e proprio furto di terre, emblematico di quanto stia di fatto accadendo ai villaggi palestinesi in tutti i Territori Occupati, sotto gli occhi di tutti, in primis dell’inerte Comunità Internazionale.

Le proteste contro il muro israeliano sono cominciate nella primavera del 2005 su iniziativa del comitato popolare del villaggio di Bil'in ( www.bilin-village.org/ ) e sono state appoggiate sin dall'inizio dai pacifisti israeliani e internazionali, riuniti quest’anno nella Seconda Conferenza Internazionale nel villaggio.


Dopo la preghiera del venerdì, ogni settimana un corteo parte dal villaggio per cercare di arrivare il più vicino possibile alla zona in cui il muro è in costruzione per cercare di rallentare il lavoro delle ruspe, con azioni di disobbedienza. Ogni volta vi sono attacchi brutali da parte dei soldati con arresti e ferimenti, eppure malgrado questo si continua con creatività e determinazione: si fanno giochi con clown, si è perfino portato un pianoforte e fatto un concerto, naturalmente interrotto dai gas lacrimogeni e dai proiettili di gomma con anima in acciaio che molto spesso sono letali.


Per questa unità di azione e d’intenti, quello che da due anni sta avvenendo a Bil'in è davvero esemplare: è la risposta non violenta che israeliani e palestinesi insieme oppongono alla confisca della terra, alla demolizione di case, all'umiliazione dei check point e alla segregazione del muro, frutto di 40 anni di occupazione militare israeliana. Straordinarie, e che parlano ai cuori e alle menti, le relazioni che si sono stabilite tra i giovani israeliani dei diversi movimenti, da Tayush ai giovani anarchici contro il muro ai giovani palestinesi del villaggio di Bil’in. Purtroppo però questa forma di lotta e di resistenza, che ricorda il grande movimento di disobbedienza civile di Beit Sahur durante la prima Intifada, quando i palestinesi rifiutavano di avere una carta di identità israeliana o non pagavano le tasse, non si è estesa in tutti i villaggi palestinesi: anche i militanti di Beit Sahur erano esemplari, ma non ricevevano il sostegno di tutti.

E’ invece necessario che questi esempi di lotta non violenta e di alleanza da parte dei movimenti, israeliani, palestinesi e internazionali contro l'ingiustizia sofferta dal popolo palestinese si estenda anche al resto della Cisgiordania e della Striscia di Gaza, perché se la Palestina ha bisogno di Pace e Giustizia, la pace nella regione è indispensabile tanto per gli israeliani e palestinesi, quanto per noi.


IWC INTERNATIONAL WOMEN COMMISSION,

Donne palestinesi, israeliane e internazionali insieme per una pace giusta e sostenibile


Una pace giusta e sostenibile è la sola via per garantire la sicurezza ad entrambe le popolazioni e all’intera regione e ogni pace sostenibile dipende da un fermo impegno delle parti nel promuovere e proteggere i diritti delle donne e una giustizia di genere.


L'International Women's Commission (IWC) è la prima Commissione composta da donne palestinesi, israeliane e internazionali, nata, sotto l’egida dell’UNIFEM, dalla risoluzione 1325 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite (Ottobre, 2000), che invita gli Stati Membri a garantire l'aumento della rappresentanza femminile a tutti i livelli decisionali. Il lancio ufficiale della Commissione di donne in Europa è stato ospitato al Parlamento Europeo nel dicembre del 2005.

Le donne che ne fanno parte attraversano vari livelli di professioni e di attività politiche e sociali. La struttura è composta da 20 donne palestinesi, 20 israeliane, 20 internazionali. Tra le palestinesi ci sono personalità come Hanan Ashrawi o Zahira Kamal, ma anche militanti come Hania Bitar o Nayla Aysh; lo stesso, tra le israeliane con la presenza di parlamentari come Naomi Chazan e Colette Avital (è stata candidata alla presidenza dello Stato di Israele) e di militanti come Debbie Lerman e Molly Malekar. Tra le internazionali vi sono, tra le altre, Ellen Johnson-Sirleaf, Presidente della Liberia, Tarja Halonen, Presidente della Finlandia e Helen Clark, Primo Ministro della Nuova Zelanda che sono co-presidenti e poi altre personalità femminili della politica e della cultura. Ci riuniamo diverse volte e portiamo il nostro punto di vista ai diversi governi e istituzioni. Abbiamo un comitato di coordinamento composto da tre palestinesi, tre israeliane, tre internazionali tra le quali la sottoscritta.

Naturalmente di lavoro tra le donne palestinesi e israeliane in questi anni ve n’è stato molto, ma l’elemento caratterizzante dell’IWC è la Piattaforma politica che ci tiene unite, oltre che l’azione di lobby che stiamo conducendo a livello locale e internazionale.

In primo luogo abbiamo chiesto di garantire alle donne la piena partecipazione nei negoziati, formali ed informali, per la Pace israelo-palestinese, basata su principi di uguaglianza tra i generi, diritti umani delle donne, diritti umani internazionali e leggi umanitarie in ogni futura soluzione del conflitto e per una pace giusta e comprensiva che porti stabilità, democrazia e prosperità nell’intera regione.

Insieme, abbiamo anche chiesto all’unanimità l’urgenza di porre fine all’occupazione militare israeliana, in accordo con il diritto internazionale (includendo tutte le risoluzioni rilevanti delle Nazioni Unite) e con l’Iniziativa di Pace della Lega Araba, la cui risultante dovrebbe essere la creazione di uno stato sovrano palestinese affianco allo stato d’Israele, sui confini del 4 Giugno del 1967.

Ancora insieme, israeliane, palestinesi e internazionali avevamo ribadito l’appello alla Comunità Internazionale affinché riconoscesse appieno il Nuovo Governo di Unità Nazionale palestinese, che avrebbe costituito un passo in avanti positivo e di estrema importanza per evitare il prevedibile precipitare della drammatica situazione in violenze fratricide, violenze a cui stiamo assistendo da troppo tempo con la lotta per il potere tra Hamas e Fatah.

Il boicottaggio del precedente governo palestinese ha, infatti, danneggiato le istituzioni pubbliche oltre che minato la capacità delle autorità di provvedere ai servizi basilari alla società palestinese.

Le sanzioni al popolo palestinese hanno creato alti livelli di disoccupazione e di povertà, e il rischio da scongiurare in questa situazione catastrofica rimane la deriva estremista della disperazione di un popolo da 40 anni occupato.

La fine dell’occupazione è un requisito essenziale per risolvere il conflitto arabo-israeliano, così come lo è l’adozione di un approccio nuovo, allargato e partecipativo, al posto di quello fallimentare portato avanti dai soli uomini, imperativi categorici, in questo momento critico, per arrivare ad una visione comune di un’esistenza dignitosa libera dalla paura e dalle privazioni. Nei giorni in cui il Libano veniva bombardato e la Comunità Internazionale, compresa l’ UE erano in silenzio, noi eravamo riunite ad Atene ed immediatamente abbiamo chiesto il cessate il fuoco e lo scambio dei prigionieri politici palestinesi con il soldati rapiti.

Tutte siamo impegnate a chiedere alla Comunità Internazionale e alle Autorità Israeliane e Palestinesi, nonché alle società civili di entrambe le comunità, di unirsi in uno sforzo congiunto, inclusivo e trasparente per poterci finalmente ed essere in grado di creare un futuro giusto e pacifico basato sui principi di giustizia, uguaglianza, tolleranza e rispetto reciproco, fuori dall’unilateralità e dal militarismo.


No comments: